«I cieli non sono umani», vi ripeto. E non lo è neppure ciò che è sotto e dentro di noi; non lo sono il sottosuolo e la vita che vi si svolge, i topi, le mosche, la carta da macero. Io sono un operaio, un delicato macellaio di libri, istruito contro la mia volontà e gran consumatore di birra. Lavoro con una pressa meccanica in un magazzino interrato. Comprimo centinaia di volumi opuscoli riviste, e governo e dirigo il loro disfacimento.
La mia ossessione è quella di salvare dall’oblio di ogni imballaggio una frase, un verso, un rigo di Seneca o di Nietzsche. Non posso farne a meno, anche se per questo impiego molto più tempo del necessario. A mio modo, mi considero un archeologo e un contrabbandiere di frammenti, e insieme un artista e un devastatore, un testimone del nubifragio delle illusioni della cultura e della storia e un contabile di biblioteche perdute, cancellate per sempre.
So, ho capito, che la realtà è fatta di contrasti: di originalità e mistificazione, dimenticanza e immortalità, crudezza e intenerimento. So anche che tutto è denso, pressato come i miei pacchi di carta straccia, e che lascia sbigottiti.
In certe giornate, mi sembra di sentire le risate dei libri che distruggo, perché un libro come si deve «rimanda sempre fuori e altrove». Alla fine di altre, riconosco che c’è qualcosa più di questi cieli non umani: la compassione e l’amore di cui ci siamo dimenticati e che ci hanno dimenticato.
Forse Dio, mi chiedo nelle pause del mio smisurato lavoro, è un operaio come me. Chissà se anche la sua solitudine sia altrettanto assordante.



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