Cambia il nero della tonaca o il rosso del fazzoletto, ma per il resto tutto tra noi è simile: medesima corporatura, stesso tono di voce, identica forza leggendaria. Per tutti e due le sberle sono merce che viaggia, e lo sport e la politica una passione che sale dalle viscere, o forse solo un pretesto per esercitare l’unica religione che conosciamo. Io sono un arciprete che fuma toscani, caccia di frodo e tira formidabili bastonate: l’altra faccia di Don Abbondio; io, invece, un meccanico sgrammaticato e legato alla matematica contadina delle cose: un barabba che ogni Natale ripittura in segreto un bambinello di gesso.
Siamo gente della Bassa, che possiede mani ciclopiche e abita una fettaccia di terra dove hanno un’anima anche i cani, e i crocifissi di legno parlano, e le ombre dei morti passeggiano di notte sotto l’argine di un fiume maestoso e indolente. I campioni di un’Italia che dopo la tragedia della guerra ricelebra la sua ruvida, leale e strapaesana impronta risorgimentale e torna a reinventarsi il neorealismo magico dei suoi storici ed eterni compromessi.



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