Tutto il mondo conosce la mia faccia scavata, la sagoma magrolina e pasticciona, i capelli dritti, gli occhi perennemente sul punto di lacrimare… eppure in pochi mi distinguerebbero in questo vecchio attore piccolo e sgraziato, vestito fuori moda, dal viso bianco, che in un giorno di sole e traffico scende da un taxi di Los Angeles sul marciapiede dell’Hollywood Boulevard.
Ho settantacinque anni, trecento film alle spalle, un Oscar e otto matrimoni. Ufficialmente sono malato di diabete, ma la mia malattia è un’altra. Nessuno mi dà più lavoro. È per questo che sto morendo lentamente. Ma di morire non mi importa, mi importa solo di sapere perché. Perché non ricevo più un’offerta da molti anni. Perché nessuno si è occupato di Ollie, la mia metà cicciona, lasciandolo sfiorire a quel modo. Perché la vita, per alcuni, è così triste, solitaria y final.
Così ora sto salendo le scale di un edificio grigio, sino all’ufficio del più ruvido e donchisciottesco investigatore privato della letteratura americana. Mi accoglie un uomo ormai cinquantenne, inasprito dal tempo e dall’alcol, con i piedi sul tavolo e il solito sguardo duro e malinconico, segnato da rughe come da cicatrici. Un uomo che nelle ore libere gioca a scacchi con il fantasma di Capablanca e parla con i gatti. Marlowe, Philip Marlowe c’è scritto sulla porta. Detective privato.
Chiederò a lui e a un corpulento giornalista argentino convinto che anche un piccolo romanzo possa essere un’opera di pietosa resurrezione di sbrigare questa sporca indagine sulla dignità e sulla solitudine degli uomini, come se fosse l’ultima pantomima romantica di un cinema che non esiste più.



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