Siamo le due metà di uno stesso personaggio. L’imperatore dei Tartari è il Gran Sedentario: ha le mani coperte dagli anelli, fuma pipe d’ambra e ascolta. Ma ascoltare per lui non è mai un verbo passivo. Kublai è un affittuario esigente d’altri occhi e d’altre parole. Dei luoghi visitati chiede relazioni sempre più esatte, aggiunge riflessioni, pone domande. A tratti si lascia vincere da una vaporosa melancolia. Io, il veneziano, sono invece un abile Maestro Visionario. Le mie mani sono agili e nodose e, al principio, l’unico mezzo per resocontare la vastità dei miei viaggi. Prima che sopravvenga la lingua, con la sua insufficienza, il suo infinito campionario di dubbi, bivi e varianti, la mortale sfida con ciò che vorrei descrivere. Ne nascono frammenti di città che sono nomi di donna, memorie, sogni, desideri, ordinati come una canzone dantesca. Un’invisibile partita a scacchi tra chi immagina e chi cerca di fondarvi sopra un impero di segni. Ma anche una rassegna di possibilità, una lunga meditazione su quanto si mette da parte e quanto si smarrisce del proprio tempo interiore. Alla fine, siamo la voce che racconta e siamo l’orecchio che ascolta confusi in un unico messaggio: l’importante è resistere all’assedio, «saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».



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