La prima volta che ho visto mio padre è stato nel parlatorio di un carcere. Da quella mattina mi ha sempre segnato l’impronta di un ammanco e l’impressione che la mia vita avrebbe avuto a che fare con la politica e il crimine.
Sono l’ultimo erede dell’ambivalente stirpe dei detective: aspro e tenero, scettico ma intriso di nostalgia, colto e disingannato, con una esclusiva passione culinaria e il colesterolo alto. Mi si può definire un uomo in permanente fuga.
Nel mio passato la Galizia, il Barrio Chino, l’antifranchismo, la giovane militanza comunista, la tortura, gli Usa e la cia, l’assassinio di Kennedy, qualche amico, due ferite d’arma da fuoco, una prostituta di nome Charo, molti bicchieri di acquavite e un ufficio nella Rambla. A giudicare dai miei calcoli, gettando un libro al giorno nel fuoco, non manca molto perché termini di bruciare la mia biblioteca.
Le voci più recenti mi danno ora in qualche ristorante argentino, seduto accanto a una famosa cantante di tango e sempre più somigliante a Jean-Louis Trintignant.



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