Per tutti sono don Ciccio, il commissario: un mozzicone di sigaretta spento a un angolo della bocca, capellatura nera e cresputa, accento molisano, il bavero imbrattato da uno o due schizzi d’olio, la camminata caracollante e una maniera sempre assonnacchiata, di chi a lungo ragiona con se stesso.
A trentacinque anni si può dire che abbia frequentato a sufficienza gli umani commerci per trarne speculazioni amare e senza speranza. Perché questo è il mio vizio: l’ulcera della filosofia, ratificare in ogni scellerata evenienza l’assillo d’una tesi: che anche ciò che appare inopinato abbia infiniti principi e non una sola cagione. Sia pure un furto di gioielli in un palazzo romano. Investigatura inesorabilmente votata alla sconfitta e alla malattia del guasto pasticcio di motivi e intenzioni che è il mondo e che nemmeno chi è ubiquo ai casi come me potrà sgomitolare.



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